prescrizione delle specialità medicinali

Il Decreto legge numero 23 del 17 febbraio 1998, convertito nella Legge numero 94 dell'8 aprile 1998, sancisce che il medico (Art. 3, comma 1) "nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, si attiene alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall'autorizzazione all'immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità".

medico che prescrive una terapiaIn base alla normativa antecedente il 1998, il medico era vincolato al principio generale della responsabilità professionale: era libero di prescrivere qualsiasi farmaco secondo scienza e coscienza qualora lo ritenesse utile per la salute del paziente. Tuttavia, qualora il medico non assoggettandosi alle indicazioni previste dal Ministero della Salute in qualche modo danneggiava lo stato di salute del paziente (aggravandolo o dimostrando un trattamento inefficace o inadatto), poteva essere citato in giudizio.
Alcune circolari ministeriali, emesse prima del Decreto legge del 1998, pur ribadendo il criterio di evitare prescrizioni al di fuori delle indicazioni approvate, non risultavano vincolanti alla decisione del medico (le circolari hanno unicamente funzione esplicativa all'interno di un quadro normativo in essere). Questa impostazione generale ha fatto si che le indicazioni in scheda tecnica dei farmaci fossero, in tale periodo, abbastanza generiche e approssimative, avendo una funzione per lo più indicativa. Infatti, non esisteva la necessità di illustrare puntuali indicazioni specifiche e dettagliate; tale impostazione generale comportava vantaggi e svantaggi riassunti in tabella.

la situazione antecedente l'attuale normativa
vantaggi
rischi
rapido adeguamento alle nuove scoperte scientifiche emerse da studi clinici più recenti (per esempio, l'acido acetilsalicilico è stato utilizzato come antiaggregante piastrinico molto prima che tale indicazione venisse inclusa nella scheda tecnica del farmaco);

possibilità di utilizzare alcuni effetti secondari a scopo terapeutico per la cura di altri disturbi.

aumento di prescrizioni e quindi della spesa sanitaria giacché, a volte, le aziende farmaceutiche suggerivano indicazioni secondarie non sufficientemente confermate dalla letteratura;

diffusione di terapie personalizzate che promettevano di risolvere, senza reale fondamento scientifico, patologie verso le quali i protocolli convenzionali, a volte, si dimostravano inefficaci (per es., la multiterapia Di Bella che vide scontrarsi i fautori della libertà di cura conto la volontà dello Stato di verificare l'efficacia della cura prima di concederla in regime di assistenza gratuita.

Il caso Di Bella (terapia non convenzionale per il trattamento oncologico) ha fatto da catalizzatore all'approvazione della Legge che stabilisce per il medico, in modo definitivo e categorico, l'obbligo di attenersi alle indicazioni terapeutiche previste dall'AIC rilasciata dal Ministero della Salute. La normativa riguarda tutti i medici, senza distinzione tra dipendenti di strutture ospedaliere e liberi professionisti, e afferma che la prescrizione che esula dalla scheda tecnica viene proibita indipendentemente dall'effetto che produce sul paziente: configura di per sé un illecito, analogamente a quanto avviene per la detenzione di medicinali scaduti (non accuratamente separati da quelli dispensati nella Farmacia).

Comunque, la normativa prevede due eccezioni (Art. 3 - commi 1, 2) che tuttavia, nella pratica della medicina generale, risultamo praticamente inattuabili:

  1. il medico può prescrivere un farmaco per il trattamento di malattie non comprese nelle indicazioni terapeutiche registrate solo dopo avere ottenuto il consenso informato del paziente, avere informato il Ministero della Salute e riscontrato che non esistono cure alternative con farmaci regolarmente registrati;
  2. è inoltre permessa la prescrizione di farmaci innovativi elencati in una lista speciale compilata dal Ministero della sanità che comprende medicinali molto specialistici.
La prescrizione fuori dalle indicazioni della scheda tecnica, però, soprattutto nel primo caso, non può essere effettuata a carico del Servizio sanitario nazionale.

AIFA e foglietto illustrativo

L'inserimento della nuova legge in un corpus normativo non predisposto a recepirla, ha creato nei primi tempi della sua attuazione una serie di difficoltà in quanto il medico si è trovato a confrontarsi con foglietti illustrativi approssimativi e generici.
Inoltre, i regolamenti della Comunità europea prevedono per la registrazione dei farmaci una serie di rilevanti adempimenti burocratici e scientifici che rendono oneroso per le aziende modificare le indicazioni già approvate per l'AIC.

In realtà, può verificarsi che farmaci ufficialmente autorizzati per determinate indicazioni si dimostrino successivamente efficaci nel trattamento di altre condizioni patologiche. Esempi di questo tipo sono piuttosto frequenti in medicina. D'altra parte, compete all'azienda farmaceutica titolare della specialità medicinale richiedere all'autorità sanitaria competente l'ampliamento delle indicazioni, allegando la necessaria documentazione scientifica. Talora, per svariati motivi, non ultimo il ritorno commerciale a fronte dei costi della sperimentazione clinica, tale estensione non interessa o non è ritenuta opportuna.
Qualora, all'interno di classi omogenee di farmaci (ad es. fans, benzodiazepine, ecc.), in seguito a studi clinici correttamente condotti si evidenzi che un determinato principio attivo presenta una specifica efficacia in una particolare patologia, per tale medicinale potrà essere richiesta e concessa un'indicazione aggiuntiva, che peraltro, in mancanza di brevetto specifico (d'indicazione) potrebbe essere estesa, con documentazione ridotta, all'intera categoria omogenea.

Queste circostanze si concretizzano nel fatto che i medici mutualisti tendono a prestare particolare attenzione alle note compilate dalla Commissione Unica del Farmaco, ignorando al contempo la meno restrittiva normativa generale. In effetti, le note AIFA (ex CUF, Commissione Unica del Farmaco) corrispondono ad una normativa di secondo livello, cioè a un provvedimento amministrativo (volto al contenimento della spesa sanitaria) subordinato alla legge generale (come sottolineato dalla stessa CUF in più occasioni), che resta il fondamento della prescrizione corretta.

Infine, si deve considerare che i numerosi provvedimenti di modifica e aggiornamento delle schede tecniche emessi praticamente con cadenza giornaliera, producono difficoltà alla classe medica; particolarmente se si considera che gli insegnementi universitari formano culturalmente i medici sugli indirizzi terapeutici previsti dalle linee guida internazionali e dagli studi più accreditati nei vari settori, ma è trascurata la verifica della loro congruenza con le normative e le schede tecniche registrate nei vari Paesi. Il medico viene perciò istruito a prescrivere certi farmaci per la cura di una malattia ma può trovarsi in difficoltà perché le indicazioni del foglietto illustrativo non corrispondono.

Per esempio, secondo le linee guida internazionali approvate dall'OMS, e ormai recepite in quasi tutte i Paesi, i farmaci antifiammatori non steroidei (FANS) costituiscono il trattamento di prima scelta per la terapia analgesica nei pazienti neoplastici e per i malati cronici terminali. Questi farmaci hanno un buon effetto analgesico, in parte diretto ed in parte secondario al meccanismo antinfiammatorio. Per tale ragione la CUF ha adeguato le note prescrittive inserendo la rimborsabilità dei FANS per il trattamento del dolore lieve o moderato (nota 66) nei pazienti oncologici. D'altra parte, questa disposizione contrasta le indicazioni approvate dal Ministero della Salute e riportate nelle schede tecniche. Il medico si trova quindi in un dilemma critico: se prescrive un FANS a un malato di tumore, si trova in condizione di formale illegalità.

la questione della responsabilità

Il fatto che lo Stato si riservi il diritto di stabilire le indicazioni per la prescrivibilità di un farmaco configura un'assunzione di responsabilità da parte sua. In altre termini, se il medico si deve limitare a quanto consentito dallo Stato, ne deriva che questo è l'unico soggetto giuridico idoneo a valutare l'attendibilità delle indicazioni terapeutiche e deve rispondere della loro adeguatezza. La questione non è accademica giacché, in più occasioni, anche recenti, la responsabilità di prescrizioni inutili, eccessive o poco scientifiche è stata attribuita senza valutare il fatto che erano in linea con le indicazioni autorizzate.

Per queste ragioni può accadere che una prescrizione medica corretta dal punto di vista scientifico possa configurare condizioni di formale illegalità. D'altra parte, la prescrizione di un medicinale per un'indicazione non approvata gode di una virtuale impunità: è ragionevole supporre che nessun magistrato condannerebbe un medico di famiglia per aver prescritto un FANS a un paziente malato di cancro; tuttavia questa impunità non è una certezza. Comunque, una certa tolleranza è legata al fatto che la responsabilità dell'aggiornamento puntuale e corretto delle schede tecniche spetterebbe al Ministero della Salute che però non sembra riescire a coordinarsi efficacemente con la Commissione Unica del Farmaco, come dimostrato in più occasioni dall'incongruenza delle rispettive decisioni.

L'aggiornamento dei medici sulle variazioni normative compete al Sistema Sanitario Nazionale a cui, in base alla legge di Riforma "spettano compiti di informazione e di controllo delle attività di informazione scientifica delle imprese titolari alla autorizzazione alla immissione in commercio di farmaci". Benché in parte venga delegato alle aziende, è il SSN che deve predisporre un programma pluriennale d'informazione scientifica finalizzata a iniziative di educazione sanitaria e che deve controllare, in modo diretto e costante, l'attività degli informatori scientifici. Il Ministero della Salute ha, in ultima analisi, la responsabilità di fornire ai medici un'adeguata informazione che, unita alla corretta e non contraddittoria normativa, permetta ai medici di espletare la propria attività nel pieno rispetto della legge.

adattato da un articolo di Daniele Zamperini
2001 by ZADIG srl, via Calzecchi 10, 20133 Milano

appropriatezza prescrittiva

La prescrizione di un farmaco si dice appropriata se i benefici per la persona superano i rischi che essa corre a séguito dell'assunzione di quel farmaco. In pratica, per l'appropriatezza d'impiego occorre che il farmaco sia efficace e che la prescrizione riguardi indicazioni cliniche per le quali è stata dimostrata l'efficacia, a certe condizioni d'impiego (dose, durata, via di somministrazione, interazioni eccetera). Negli ultimi anni, visto il consumo dei farmaci e la prevalenza di certe malattie, la questione ha ricevuto un'attenzione crescente. I due casi che seguono (ripresi anche successivamente) sono esemplari e ne spiegano le ragioni.

  • Il caso del felbamato, un antiepilettico lanciato negli Usa nel 1993 con indicazioni ristrette, sostanzialmente per i soli casi in cui gli altri farmaci non ottenevano un buon controllo delle crisi. Questo farmaco fu presentato con una efficace campagna promozionale che prometteva un controllo delle crisi senza i molti effetti collaterali di altri anticonvulsivanti. L'anno successivo al suo lancio fu prescritto a più di 100 mila pazienti ma a breve distanza di tempo emerse che poteva avere come reazione avversa un'anemia aplastica ed un anno epatico grave, anche mortale. La propaganda indiscriminata cessò e due anni dopo il felbamato era usato ancóra solo in 11 mila pazienti: per tutti gli altri si era trattato dunque di una somministrazione senza una precisa indicazione.

  • Il caso dei nuovi antinfiammatori non steridei (FANS) inibitori selettivi delle COX-2 (o antiCOX-2) che, sembra, non abbiano la gastrolesività caratteristica dei FANS tradizionali. I pazienti con maggiore probabilità di avvantaggiarsi dall'uso degli antiCOX-2 sono quelli che necessitano di una terapia cronica di FANS a dosaggi elevati, circostanza in cui non è indicato comunque l'uso di farmaci gastroprotettivi proprio per la minor gastrolesività degli antiCOX-2. In Italia, invece, i dati di consumo (2000) indicavano che i farmaci venivano usati per terapie brevi e non per trattare malattie croniche; inoltre, persisteva l'uso concomitante di gastroprotettivi. Come se non bastasse, è stato drammaticamente dimostrato che questi farmaci potevano essere correlati ad un'aumentata incidenza di infarto miocardico e di ictus. Il farmaco Vioxx è stato ritirato dal commercio dalla Merck & Co il 30 di settembre del 2004.

L'appropriatezza della prescrizione, dunque, riveste un aspetto cruciale per promuovere l'uso corretto dei farmaci. Da qui derivano le preooccupazioni del Ministero della salute e l'adozione di uno strumento come le note Aifa che precisano le indicazioni nelle quali è dimostrata l'efficacia del farmaco e rappresentano uno strumento utile medico per migliorare l'appropriatezza delle prescrizioni, in modo da evitando terapie inutili o di dubbia efficacia e, per conseguenza, contenere la spesa sanitaria.

efficacia vs. appropriatezza

L'appropriatezza nelle prescrizioni presuppone l'efficacia del farmaco, cioè la sua capacità di modificare positivamente l'evoluzione naturale di una malattia o di una condizione clinica. Per modifica positiva s'intende o la guarigione della condizione di base, come per un antibiotico usato nel corso di un'infezione batterica; oppure, il miglioramento dei risultati attesi, come nel caso dell'insulina in pazienti con diabete di tipo II, condizione in cui il farmaco è impiegato per ridurre la frequenza delle morbilità e della mortalità associate alla malattia. Il fatto che la modifica riguardi l'evoluzione naturale di una malattia indica che ci si deve attendere un miglioramento rispetto a coloro che non sono sottoposti ad alcuna terapia.

Purtroppo, l'efficacia di un farmaco, dimostrata in sperimentazioni cliniche, rappresenta solo una delle condizioni preliminari ad una prescrizione appropriata: questa comprende due requisiti:

  1. l'applicazione corretta del farmaco;
  2. il suo impiego in una persona che presenti una condizione analoga a quella delle persone coinvolte nelle sperimentazioni.
Sono questi due elementi, segnatamente il secondo, in cui si può commettere l'errore di un uso inappropriato.

Al termine di una sperimentazione si può dimostrare che un farmaco ha prodotto il miglioramento di qualche indicatore di salute. D'altra parte, queste evidenze sperimentali si riferiscono ad un contesto non proprio rappresentativo della realtà: per esempio i pazienti sono più selezionati, tendono ad essere presenti meno anziani e meno persone affette da patologie concomitanti rispetto alla composizione generale della popolazione; inoltre, sono escluse persone che presentano qualche tipo di controindicazione. Infine occorre ricordare che durante la sperimentazione i pazienti sono seguiti con maggiore attenzione, fatto che oltre a favorire l'adesione (compliance) alla terapia, consente interventi più solleciti nel caso di eventi inattesi o decisamente negativi.

In conclusione, per il medico prescrittore di un farmaco di nuova introduzione (la prima AIC ha durata quinquennale) cioè nella fase IV della sperimentazione clinica, le prime difficoltà consistono nello scegliere farmaci efficaci e assicurarsi che il vantaggio messo in evidenza dalla sperimentazione si verifichino anche nelle condizioni in cui il farmaco è utilizzato nella pratica.

le condizioni di un uso appropriato del farmaco

Da quanto premesso, segue che un farmaco per risultare efficace per il malato, deve essere impiegato nelle malattie e nelle condizioni studiate nel corso delle sperimentazioni che ne hanno dimostrato l'efficacia.
I possibili motivi d'errore sono:

  • la correttezza della diagnosi, ovverosia la corretta individuazione del quadro clinico che rappresenta l'indicazione del farmaco e per il quale è stata dimostrata l'efficacia è stata dimostrata;
  • l'impiego in pazienti con controindicazioni;
  • la dose;
  • la via di somministrazione del farmaco;
  • la durata della terapia;
  • l'impiego in pazienti che fanno già uso di farmaci che presentano possibili interazioni con nuovo farmaco.

In genere l'uso di un farmaco deve considerarsi inappropriato se prescritto per indicazioni che esulano da quelle che hanno dimostrato efficacia clinica. Questo criterio risulta evidente quando sono disponibili dati solidi sull'efficacia di un farmaco, come ad esempio l'inutilità degli antibiotici per trattare le infezioni virali. Per contro il criterio di appropriatezza si presenta meno netto o più sfumato in altri contesti. Per questo l'attuale normativa prevede che la prescrizione al di fuori delle indicazioni documentate avvenga sotto la diretta responsabilità del medico prescrittore e che questi sia tenuto ad informare correttamente il paziente ed a richiedere la sottoscrizione di un documento attestante il consenso informato.

valutazione dell'appropriatezza confontando le prove scientifiche di efficacia

La valutazione dell'appropriatezza della prescrizione può avvenire in due modi:
  1. confrontare le concrete modalità di prescrizione con protocolli standard, costruiti in base alle migliori evidenze scientifiche disponibili. Per esempio, si può valutare in questo modo l'appropriatezza della profilassi antibiotica in chirurgia. Dagli studi disponibili e dalle linee guida che ne derivano sono noti quali sono gli interventi chirurgici per i quali è indicata la profilassi, l'antibiotico da preferire, il momento nel quale iniziare la somministrazione in rapporto all'inizio dell'intervento chirurgico, la via di somministrazione eccetera. Si possono individuare indicatori di appropriatezza per confrontare il comportamento di reparti di chirurgia di uno stesso ospedale e di ospedali differenti;
  2. verificare se nei singoli casi d'impiego ricorrono le indicazioni d'uso. In questo caso occorrerebbe conoscere di volta in volta le condizioni specifiche del singolo caso nelle quali è stato usato il farmaco. Per esempio, per stabilire se l'uso di un antibiotico sia o meno appropriato si deve innanzitutto conoscere se la condizione clinica trattata è sensibile all'uso di antibiotici (nel caso di un'influenza, la "copertura" antibiotica" per prevenire infezioni batteriche occasionali non è appropriata. NdR). Successivamente, il giudizio di appropriatezza tiene conto della scelta dell'antibiotico che ha le maggiori probabilità di successo nella condizione specifica, dell'adeguatezza della dose, della durata e della via di somministrazione.

variabilità dei comportamenti prescrittivi e appropriatezza

La pratica medica è caratterizzata da una notevole variabilità: la prescrizione di farmaci, gli accertamenti diagnostici, l'esecuzione di interventi chirurgici, l'attenzione verso i pazienti, ecc. Lo studio di questa variabilità ecludendo la parte non attribuibile a differenze di morbilità delle popolazioni a confronto, è di rilievo nelle valutazioni di appropriatezza per quanto attiene le differenze di comportamento nelle decisioni professionali a fronte di problemi simili. Per quanto riguarda i farmaci, si osserva una notevole variabilità internazionale, intranazionale, interospedaliera e tra gli stessi reparti di ospedali diversi e, persino intraospedaliera.
Nel libro La Babele Medica (EDT, Torino, 1992), Lynn Payer ha condotto un confronto tra le medicine di Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti. Sebbene il libro sia datato dal punto di vista editoriale, il contenuto è indicativo di quanto le differenze culturali tra un Paese e l'altro possano determinare le differenze nella quantità e nel tipo di farmacio consumati. In particolare viene evidenziato che «alcuni dei farmaci più prescritti comunemente in Francia - i vasodilatatori cerebrali - sono considerati inefficaci in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. I medici tedeschi prescrivono la digitale in una quantità 6-7 volte superiore ai loro colleghi francesi, ma prescrivono meno antibiotici... La pressione bassa, contro la quale in Germania sono disponibili 85 farmaci, l'idroterapia o altre cure termali, negli Stati Uniti dà diritto ad abbassare il costo dell'assicurazione sulla vita». In breve, malati diversi, per il solo fatto di essere assistiti da medici diversi, in luoghi diversi anche non distanti, possono ricevere farmaci diversi. Anche molto diversi. Non efficaci allo stesso modo per la persona e non altrettanto giustificabili in termini di costi per la comunità.

E' noto che solo un dosaggio appropriato permette di ottenere da un farmaco gli effetti terapeutici desiderati con il minimo rischio. E' patrimonio comune dei medici l'evidenza che con nuove acquisizioni hanno talvolta dovuto modificare la dose di un farmaco. Un esempio per tutti è la posologia del captopril (ACE-inibitore), introdotto in commercio negli anni '80 a dosi di gran lunga superiori a quelle oggi impiegate. Quindi le dosi utilizzate nella pratica clinica possono anche differire da quelle inizialmente raccomandate dal produttore al momento della registrazione del farmaco e dell'immissione in commercio.

Negli anni 70, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sviluppato un sistema di classificazione e standardizzazione dell'esposizione farmacologia, il sistema ATC/DDD . L'OMS definisce la DDD (Defined Daily Doses, Dose Definita Giornaliera) come "la dose media di mantenimento, assunta giornalmente, di un farmaco utilizzato per la sua indicazione principale in soggetti adulti" . Per i farmaci di nuova immissione in commercio, la dose media di mantenimento cui riferirsi è unicamente quella dose raccomandata sul foglietto illustrativo, basata su studi clinici premarketing che non sempre rispecchiano il reale uso che si farà del farmaco nella pratica clinica. Per questo motivo, il centro dell'OMS di Oslo opera una sorveglianza attiva per verificare le modifiche della DDD dei farmaci dopo la loro immissione in commercio. Tra il 1982 ed il 2000 sono state cambiate le DDD di 115 farmaci, di cui 45 (39,1%) in aumento e 70 (60,9%) in riduzione rispetto a quella inizialmente assegnata.

Un articolo pubblicato su Lancet (Cars et. al. 2001; 357:1851-3) dedicato al confronto sull'uso di antibiotici nell'UE, sottolineava differenze significative. Per esempio, si passava dalle 9 DDD per 1000 abitanti die (cioè ogni 1000 abitanti sono consumate 9 dosi medie ogni giorno) dell'Olanda alle 37 della Francia, mentre l'Italia, con 24 DDD per 1000 abitanti die si colloca in una posizione medio-alta.


Marcello Guidotti, copyright 2010
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